L’Estate di Colombati brucia

Consiglio un romanzo che per questioni di nomenclatura s’inserisce di diritto tra i libri da portarsi in vacanza, ma non è un “libro da ombrellone” come lo intendono i rotocalchi, sempre che abbia senso questa definizione: io sotto l’ombrellone ho letto Proust e studiato i formalisti russi, però non è questo il punto.

Il punto è che “Estate” di Leonardo Colombati è un bel romanzo, e ammetto di essermi stupita nel leggerlo e trovare una grande maturità stilistica: non che pensassi che non sapesse scrivere, ma secondo me nei libri precedenti risentiva di una certa tendenza a voler fare il fenomeno, a esibire, ostentare…

In “Estate” invece la scrittura è curata e precisa, le immagini sono nitide ed efficaci, le metafore mai scontate: troviamo dialoghi vivaci, descrizioni accurate e vivide, e mai un’esagerazione o una sbavatura. E’ la storia di un uomo che si scopre mediocre – un moderno Lord Jim senza le aspirazioni idealiste – e deve fare i conti con questa rivelazione, sebbene ne avesse già qualche sospetto, come una sorta di eco di un lontano ricordo.

Dopo che la vita gli crolla addosso come in un domino, Jacopo D’Alverno, si trova a riesaminare tutta la sua esistenza, i suoi affetti, in un percorso di auto-analisi che lo porterà anche a una rivelazione su un episodio oscuro della sua infanzia. Più che il fuoco distruttore dell’incendio che all’inizio del romanzo lo riduce sul lastrico, è il dolce calore dell’estate che spinge a indugiare sul passato facendo bilanci esistenziali, che fa di Jacopo carne viva ed esposta rivelandone ogni piccola meschinità e codardia. E tuttavia questo indagare sulla sua personalità e sul suo modo di reagire agli eventi, lo lascia uguale a sé stesso, solo più consapevole ma senza costrutto. Le diverse domande che si pone, che tutti noi ci siamo posti una volta nella vita, quando ricevono risposta non lasciano spazio alla speranza e quando rimangono aperte vengono semplicemente accantonate o accettate senza ribellione. D’Alverno vive in una continua partita a ping pong col passato, alla ricerca di un eldorado legato a una giovinezza che non troverà mai più, e che in realtà non è stata nemmeno così leggendaria come pensava. Per questo, più che al personaggio di Conrad, è vicino agli uomini dei romanzi di Fitzgerald e di tutta quella letteratura sul tempo perduto e sulla perdita, senza arrivare a scomodare Proust.

Del resto sono tantissimi i riferimenti letterari, le citazioni di romanzi e canzoni diffusi nel testo: e quando capisci il gioco è divertente scoprirle e indovinarne l’origine. Colombati è uno scrittore che legge e ha letto molto, oltre ad avere altri interessi come la musica o il tennis il calcio, e questo si riflette nella sua narrativa, piena di spunti, di ispirazioni, di accenni al mondo presente o remoto, e soprattutto nel suo stile curato come poche volte mi è capitato di leggere nella narrativa italiana contemporanea. A partire dall’incipit notevole: «Avevo tutto: una famiglia, i soldi, l’amore, il rispetto. E il Sea-Gull Hôtel des Étrangers. Non mi è rimasto più niente», dentro il romanzo – per restare nella letteratura- troviamo echi non solo di Francis Scott Fitzgerald e Joseph Conrad, ma anche di Saul Bellow, Robert Musil, e del Tolstoij di Anna Karenina: «Tutti gli alberghi felici si somigliano.[ .. ] adesso so che tutti gli alberghi dal destino infelice scelgono ognuno la propria disgrazia».

 

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