Le “nuove” fanciulle in fiore

Con una traduzione rivista dalla stessa, bravissima, Elena Dal Pra, minimum fax ripubblica “Il gruppo” di Mary McCharty.

Io ne scrissi al tempo dell’edizione Einaudi del 2006, quando il romanzo tornò in Italia dopo la prima edizione del 1964 per Mondadori e lo consiglio di nuovo perché è una spaccato di costume che racconta molto della strada dell’emancipazione femminile, e purtroppo visti i tempi bui che sembrano tornare, è utile per ricordare a tutti quanto è stato difficile ottenere certi diritti e il riconoscimento della parità di genere.

Allo stesso tempo l’autrice porta avanti una critica sociale e politica, partendo da una posizione smaccatamente trotskista. McCarthy, che assumendo come protagoniste otto  ragazze dell’alta borghesia, rompe con la società intellettuale cui appartiene, cosa che le varrà critiche e attacchi perlopiù gratuiti e quasi sempre da uomini, critica l’ottimismo degli anni del new deal, e il concetto stesso di progresso, il feticcio della tecnologia e dello sviluppo a ogni costo.

E la cosa più interessante è che in questa prospettiva, nel dipingere le 8 ragazze alle prese con oggetti e strumenti di ultima generazione (per loro), McCarthy quasi le ridicolizza ribaltando in apparenza l’idea stessa che il romanzo sia un romanzo femminista. Questo perché “il gruppo” è in realtà più complesso di quanto sembri, con diversi piani di lettura, ed è soprattutto un romanzo sociale, che coglie i cambiamenti di un’intera società ma attraverso delle protagoniste femminili, tutte diverse tra loro.

Mi piace molto la penna di Mary McCharty anche se non riesco a perdonarle l’odio feroce nei confronti di Lillian Hellman e la critica a J. D. Salinger.

Qui la recensione completa del 2006 su Stilos.

Di fronte all’enorme successo de Il gruppo – oltre cinque milioni di copie vendute – Norman Mailer non trovò di meglio che accusare Mary McCarthy dalle pagine della “New York Review of Books” di avere scritto «un libro per signore», degno del «miglior romanzo che, nelle loro segrete ambizioni, gli editori di riviste femminili abbiano mai concepito». Un caso di invidia mal celata naturalmente, tanto che, mutatis mutandis, si potrebbe tranquillamente dedicare all’acido scrittore americano una caustica osservazione della stessa McCarthy per cui: se non si riesce a tirare fuori niente da Guerra e pace «c’è sempre la ricetta di Tolstoj per fare una squisita marmellata di fragole». Il gruppo, ambientato a New York tra la presidenza Roosevelt e l’epoca di Eisenhower, è un romanzo sorprendente: non fosse altro perché fa un certo effetto leggere nel 2006 un libro concepito nel 1954 (e pubblicato solo nel 1963) che già dalle prime pagine affronta argomenti come la contraccezione femminile, l’orgasmo ed il “sesso per il sesso”, senza giri di parole o metafore zuccherose. Un romanzo coraggioso più di tanti altri, che ancor oggi si nascondono dietro eufemismi e ipocrite pruderie, questo di Mary McCarthy –  scrittrice polemista  e giornalista americana di origine irlandese – riproposto da Einaudi dopo anni di assenza dagli scaffali italiani in una nuova e fresca traduzione a cura di Elena Dal Pra. Il gruppo è la storia corale di otto giovani donne, simbolo di un’intera generazione alle prese con l’emancipazione (in una sorta di protofemminismo ancora in boccio) e il nuovo corso della società statunitense: siamo infatti nell’America del “New Deal”, periodo di dinamismo sociale e ripresa economica, in cui gli americani si rimboccano le maniche per risollevare le sorti di una nazione al collasso dopo la crisi del ’29 e la Grande Depressione. Nel giugno del 1933, mentre il neo-presidente Franklin Delano Roosevelt stipula un patto con i suoi elettori e incalza il popolo americano perché reagisca alla lunga fase di recessione («l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa» dice durante il suo discorso inaugurale il 4 marzo di quello stesso anno), le otto fanciulle in fiore de Il gruppo, appena laureate al prestigioso Vassar College, si trovano a fare i conti per la prima volta con il mondo adulto. Kay, Dottie, Lakey, Priss, Polly, Helena, Libby e Pokey – “il gruppo”, appunto – diversissime tra loro per attitudini, origini e aspirazioni, accomunate dal desiderio di cambiare le cose (ostentatamente anticonformiste, ma in realtà tutte disperatamente borghesi) lasciano il college rincorrendo ognuna il proprio destino che le condurrà a vivere esistenze separate senza mai perdersi definitivamente di vista. Alcune di loro si realizzeranno nel lavoro e nella vita privata, si sposeranno e avranno dei figli. Altre si condanneranno all’infelicità con scelte sbagliate o difficili. Tra queste Kay, la più esplosiva e ambiziosa del gruppo, che sposa un giovane commediografo che le rovinerà la vita. E Dottie, protagonista di una gustosissima scena di “sesso senza amore” che ha scandalizzato l’America puritana (in cui la McCarthy racconta nei minimi particolari la sua prima volta con un uomo appena conosciuto, suggerendo che il sesso può anche essere divertente e soddisfacente pur senza l’intervento del romanticismo à la Peynet), che alle fine diventa la rassegnata moglie di un ricco magnate. Lakey infine, la più bella, colta e invidiata, lascia l’America per specializzarsi in Storia dell’Arte in Europa e torna qualche anno dopo ancora più bella, colta e invidiata di prima in compagnia di una baronessa tedesca, sua amante. In questo “romanzo collettivo di formazione” le ragazze del Vassar fanno i conti con i loro errori e le disfatte personali, tanto da cercare ogni volta nel gruppo una legittimazione, un riparo, a volte persino uno specchio per mezzo del quale guardare bene in se stesse. E si sente, nel leggere il libro, che Mary McCarthy si è divertita, che ha provato un bel gusto a dar vita a queste giovani donne inesperte e piene di belle speranze che, forti di un’educazione ad alto livello, si illudono di poter conquistare il mondo; ma si ritrovano a combattere con tradimenti, impieghi insoddisfacenti, svezzamenti complicati e una generalizzata assenza d’amore. Il gruppo (che in Inghilterra fu addirittura censurato) è scritto con una lingua rapida e tagliente che non teme di chiamare ogni cosa col suo nome e mescola gravità e freschezza, tragedia e frivolezza da settimanale di moda in un mix micidiale che tritura l’ipocrisia borghese e scuote le menti intorpidite dal puritanesimo e dall’iperattivisimo del boom economico degli anni ‘50. Allo stesso tempo mostra alle future femministe la via da non seguire per le proprie rivendicazioni: rincorrere l’emancipazione e lottare per i diritti lesi da una società maschilista non può prescindere dalla femminilità né comportare la rinuncia all’amore. Mary McCarhty smentisce così uno degli insegnamenti impartiti al Vassar College alle otto del gruppo (ma anche alla stessa Mary che alla fonte di quel tempo liberal si è formata davvero): «Imparare a vivere senza l’amore se ci si vuole convivere». L’autrice l’ha imparato a sue spese, passando da un letto ad un altro e sposando uomini di cui non era innamorata (tra cui Edmund Wilson, potente critico del New Yorker, editor e scrittore; il primo a sostenere la generazione perduta di Fitzgerald, Hemingway, Dorothy Parker, Dos Passos), per poi ritrovarsi insoddisfatta, disperata e sola. Descrivendo le peripezie e le disavventure di queste fanciulle degli anni ‘30, Mary McCarthy ironizza sulla società americana del suo tempo e scrive in realtà un romanzo sul progresso, sulle illusioni legate alla ripresa economica e sui sogni infranti di una generazione rampante, negli anni ’30 come nei ’60 (allora) appena cominciati. Il gruppo è un romanzo assai godibile che non risente del tempo ed è anche un affresco accurato e divertente di un’epoca non così lontana, uno studio sui cambiamenti occorsi al costume (dal sesso, alla famiglia, all’economia) raccontati  da un punto di vista squisitamente femminile, con arguzia, lucidità, passione. E infinita grazia. 

Share

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.