Ti racconto una storia: Canto della neve silenziosa

neve seia montanelli

canto della neve silenziosa - seia montanelliI detrattori del racconto – inteso come forma narrativa – obiettano quasi sempre che la (relativa) brevità del testo non consente al lettore di identificarsi con il personaggio e di entrare nella storia: sembrerebbe che “proprio quando uno comincia finalmente a capirla (la storia intendo), quella finisce”.

A parte l’opinabilità della questione della necessaria identificazione tra lettore e personaggio (quanti – ad esempio – si sono identificati in Ripley? Al massimo hanno parteggiato per lui o ne hanno ammirato il genio criminale, ma non credo che qualcuno abbia subito un transfert, a meno di essere un potenziale assassino), e della palese contraddizione tra l’attuale tendenza consumistica della letteratura usa e getta e il bisogno di leggere solo storie lunghe: io dico che molto dipende da chi è l’autore del racconto e dalla capacità di astrazione del lettore, che detto tra noi, dovrebbe preoccuparsi di ben altre cose quando legge un testo, più che della sua lunghezza, ma tant’è. Peraltro mi viene in mente – riguarda alla brevità e alla concisione – ciò che diceva Nietzsche:”la mia ambizione è dire in dieci frasi quello che chiunque altro dice in un libro.”

E poi comunque, ci sono racconti che in realtà sono romanzi brevi (molti dei racconti di Flannery O’Connor sono densi di avvenimenti, situazioni e spunti di riflessione, più di molti romanzi lunghissimi che parlano di niente e sul niente); altri che hanno il respiro di una grande storia (penso a “Primo maggio” di Fitzgerald contenuto nella raccolta I racconti dell’età del jazz, che è lungo quasi 80 pagine), e altri ancora sono così perfetti nell’economia della loro struttura narrativa da riuscire a superare le ambizioni architettoniche di qualsiasi romanzo (come nel caso de la Ragazza dagli occhi d’argento di Dashiell Hammett o della Dama di picche di Puskin).

Se dovessi convincere chi sostiene la superiorità del romanzo sul racconto a passare il guado, giocherei sporco e gli darei da leggere Canto della neve silenziosa di Hubert Selby jr, una bellissima raccolta di racconti talmente ispirata e commovente da non temere confronti con alcun romanzo. C’è da tenere in conto anche il fatto che le raccolte vanno considerate nel loro insieme, soprattutto quelle di scrittori americani, che di solito le cose le fanno per bene e non riuniscono i testi a caso solo per fare numero. I racconti vengono selezionati (se non scritti apposta) per riuscire a dare una visione globale del mondo o di una sua parte. Così dopo che sei arrivato alla fine, scopri che tutti insieme ti hanno raccontato un’unica grande storia. Certo le devi saper scegliere le raccolte. Ecco se scegli Hubert Selby Jr e il suo Canto della neve silenziosa vai sul sicuro.

Song of the silent snow – questo, il bellissimo titolo in inglese, mentre l’efficace tradizione italiana è di Veraldi (e si sente) – è una raccolta di quindici racconti, scritti nel corso di vent’anni e riuniti in una silloge nel 1986, che nascono e muoiono a New York: la città amata ed odiata dall’autore, che ripeteva spesso di non sentirsi americano ma newyorkese, anzi “di Brooklyn”.
Le quindici storie hanno tutte per protagonista Harry (ogni volta un Harry diverso): un “tipo umano” attraverso il quale Selby descrive la quotidianità di un uomo qualunque in una città enorme e tentacolare come New York. Che racconti di un vecchio che scopre di essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico, di una lotta tra ragazzini, di un amore (platonico) sbocciato in una fermata della metropolitana o dell’ossessione di emergere che frustra un rappresentante nello spietato mondo dei venditori, quello che Selby mette in scena per noi sulla carta è sempre la rappresentazione di quegli inevitabili momenti di smarrimento e violenza che tutti abbiamo affrontato almeno una volta nella vita.
Anche in Canto della neve silenziosa, come nel resto delle sue opere da Ultima fermata Brooklyn a Requiem per un sogno, l’autore non denuncia, non cerca soluzioni e non chiede aiuto per i suoi personaggi – simbolo di una umanità dolente e reietta – ma si limita a puntare un faro dritto in faccia allo squallore e alla miseria umana, fotografandolo senza moralismi.
New York è una città in cui è facile sentirsi soli, e con la solitudine arrivano anche la disperazione e l’ossessione e la follia e la violenza, che sono i temi classici di Selby, sottolineati da una prosa ipnotica e dalla tipica struttura basata sul discorso indiretto nel quale diluisce, senza annunciarli con la punteggiatura, i dialoghi e il flusso di coscienza dei personaggi.
Ma c’è qualcosa di più.
In Canto della neve silenziosa c’è la speranza e lo sguardo dell’autore sul mondo è più delicato, quasi tenero. Selby, sembra concedere alle sue storie una possibilità di lieto fine, magari nascosto sotto una candida coltre di neve, come nel meraviglioso racconto che dà il nome al libro (e lo chiude).
Anche la sua scrittura semba soffusa di questo bagliore ottimista, e pur mantenendo l’abituale ruvidezza, rinuncia al suo stile rutilante e crudo per distendere i toni e concedersi delle note di colore al posto delle solite atmosfere cupe. Del resto la drammaticità delle storie raccontate in Canto della neve silenziosa, emerge da sé e non c’è più la necessità di sottolinearla con l’asprezza delle parole e delle immagini: si tratta di storie terribili perché eccezionali nella loro normalità.
L’autore coglie quei momenti di comune smarrimento e li confeziona in storie crudeli, folli, violente, a volte pervase da una sottile vena ironica, eppure allo stesso tempo lievi e delicate, struggenti quasi. E dalla cupezza delle atmosfere che fanno da sfondo alle vicende, alla fine spunta inattesa una luce, una porta aperta sulla speranza che offre la possibilità di ricominciare. La stessa speranza che Selby cercava per sé ogni notte, quando prima di coricarsi, lasciava sempre una frase in sospeso, per avere un punto da cui ripartire l’indomani.
Se l’ultimo racconto della raccolta, Canto della neve silenziosa, è il più poetico e il più aperto alla speranza, il mio preferito è però il secondo, Ciao campione: una vera folgorazione.
E’ una storia sull’incapacità di accettare la felicità, sull’impossibilità di credere che le cose possano girare per il verso giusto.
Harry deve uscire con Rita. Lei è bellissima e lui ne è già innamorato. Vuole fare colpo su di lei, e decide di chiedere a Jack Dempsey, un noto campione di pugilato che frequenta il bar dove si reca spesso anche lui, di fingere di essere suo amico e di salutarlo proprio quando lui entrerà con Rita nel locale la sera dell’appuntamento.
Selby ci confida subito che Harry è un tipo ansioso, troppo riflessivo, insicuro forse. Jack accetta e svolge a dovere la sua parte. Rita è impressionata dall’idea che Harry sia amico di un tale campione e la serata procede secondo le migliori previsioni. Parlano, mangiano, ridono, si conoscono e si piacciono, fanno l’amore e si risvegliano insieme, contenti di essersi incontrati. Forse si sono già innamorati.
Decidono di rivedersi. Rita dice dover andare a trovare i suoi genitori, così si salutano ma prima di andare lei si rende conto di non avere il numero di Harry. Lui la tranquillizza e le dice che la chiamerà la sera stessa per vedersi ancora. Si lasciano con un bacio appassionato.
Quando lei esce, Harry comincia a pensare – E’ andata bene la serata. Magnifica. Rita è una donna stupenda. E’ stata una grande idea quella di parlare con Dempsey…. L’ho impressionata…. Un momento se tutta la serata fosse dovuto a questo? Se fosse solo per questo che è così attratta da me? Per una bugia? Certo non è una gran bugia! E se invece tutto ciò che mi ha detto lei fosse una bugia? Magari non è vero che deve andare a pranzo dai suoi. Oppure la chiamo e stasera non la trovo. O se la trovo mi dirà un’altra bugia. Non potrei sopportarlo.
Non la chiamo.
Meglio risparmiarsi l’umiliazione. E’ sempre la solita storia.. –
E così si preclude la possibilità di essere felice. Ha fatto tutto da solo. Per non rischiare, per non investire i propri sentimenti, per paura di soffrire ha rinunciato all’amore.
Selby diceva che è la mancanza d’amore il tema di tutti i suoi libri, perché un mondo senza amore è un mondo terribile.
Come dargli torto?
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