Un racconto è un racconto è un racconto

Prendo spunto da un commento di Cyrano ad un mio post di qualche giorno fa, in cui parlava della tendenza a considerare i racconti come meri esercizi di stile propedeutici alla stesura di un romanzo, e mi lascio andare a qualche considerazione sul racconto. Chi comincia a scrivere solitamente lo fa partendo proprio dal racconto perché lo ritiene un genere più breve e quindi più accessibile del romanzo, senza tener conto del fatto che i problemi che pone un racconto non sono necessariamente più semplici da risolvere, solo si pongono tutti insieme e quindi sono facilmente individuabili, e poi il risultato è evidente in un lasso di tempo molto più breve. Il racconto tuttavia richiede innanzitutto un’assoluta padronanza dei mezzi espressivi e una grande abilità di costruzione perché deve essere già concepito come tale sin da quando nasce l’idea, e quest’idea deve costituire un nucleo narrativo compiuto che non può affidarsi, per ottenere efficacia, ad uno sviluppo lungo ed articolato, e se non sei bravo, molto bravo, non puoi creare un mondo in poche righe.
Mi piace molto la definizione di racconto dello scrittore americano Erskine Caldwell (esponente della cosiddetta letteratura sociale degli Stati Uniti):“il racconto è una storia inventata con un significato abbastanza interessante da mantenere l’attenzione del lettore e anche abbastanza profondo per esprimere qualcosa sulla natura umana”. Un esempio di racconto costruito come un perfetto meccanismo ad orologeria è “I giorni” di Dino Buzzati, breve ed intenso, che racchiude in poco più di una cartella il contingente e l’eterno, il fisico e il metafisico. Maestro dei racconti è Francis Scott Fitzgerald, sebbene li considerasse in generale un mezzo per guadagnarsi il lusso e gli agi cui aspirava: stupefacente “La vasca azzurra” contenuto nella sua migliore raccolta “Tales of the Jazz ages”, che sta lì nelle mani del lettore a celebrare l’eleganza raffinata della sua scrittura e la sua straordinaria capacità di creare un mondo senza raccontare una storia in senso stretto, ma semplicemente imbastendo un dialogo spesso surreale in una camera da bagno tra due ragazzi lasciandoti solo immaginare i precedenti e gli sviluppi e le motivazioni, pur dandoti la sensazione di sapere abbastanza da essere soddisfatti da quanto ti ha raccontato. E poi Ray Bradbury, che ha reso arte la capacità di consentire al lettore la sospensione dell’incredulità. Per cui no, scrivere racconti non è un esercizio di stile propedeutico al romanzo, ma una vera sfida alla narrazione efficace, che purtroppo negli ultimi anni sono in molti a perdere: e penso ai giovani scrittori italiani: da Valeria Parrella a Simona Vinci agli autori dell’antologia “La qualità dell’aria”, e anche ai giovani scrittori americani come David Foster fallace, Jonatham Lethem, Rick Moody o Aimee Bender spesso antologizzati in raccolte barbose e costantemente auto-referenziali come “Burned children of America” o “Episodi incendiari assortiti” di David Means, che non colgono al volo l’occasione di gestire sapientemente e a proprio vantaggio l’attenzione che il lettore gli concede per via della brevità dei testi, perché concentrati esclusivamente sull’espressione linguistica, per esempio con il continuo uso di metafore vuote di efficacia perché gratuite, e incapaci di raccontare storie interessanti e di condensare un mondo in poche pagine.

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