Come i pompieri di Fahrenheit 451

A un anno dall’entrata in vigore della legge Levi sul prezzo del libro, un incontro tenutosi alla Camera dei deputati – come richiesto dalla stessa legge all’articolo 3, per verificare i risultati ottenuti – ha sancito con i dati quello che agli addetti ai lavori era già chiaro: c’è stato un calo nelle vendite dei libri pari al 10% negli ultimi tre mesi del 2011, del 5% nel primo trimestre 2012, mentre sono invariati nel secondo trimestre. I dati sono più pesanti se si considerano gli acquirenti di almeno 3 libri a trimestre, con rispettivamente un calo del 20%, 7% e 9%. al 20% nei primi trimestri esaminati, ridotto poi all’8% nell’ultimo (parliamo di un lasso di tempo di 9 mesi, rilevazioni Nielsen per l’Aie). Il calo di vendite non è da imputare direttamente alla Legge Levi ma alla crisi economica che, dopo aver colpito librai e piccoli editori, non poteva non impattare anche sul lettore. La cosa che più mi ha colpito dei dati è che dal computo sono stati eliminati gli eccessi di crescita del volume d’affari indotti dai best-sellers: 2 o 3 libri, di dubbia qualità, che da soli sono in grado di rovesciare l’andamento del mercato. Di fronte a queste cifre direi che il lettore si merita i libri che legge e sceglie di leggere, se si orienta costantemente verso i best-sellers, i libri di cui tutti parlano, ha poco diritto di lamentarsi dell’offerta commerciale del nostro sistema editoriale. Epperò, non abbiamo la prova del 9, non sappiamo quale sarebbe, di fronte a una vera offerta che sostenga e tuteli la bibliodiversità, il comportamento del lettore. Da mesi editori piccoli ma di qualità incontrovertibilmente eccelsa non escono con nuovi libri, non possono permetterselo, si sono autosospesi dal mercato: si stanno dibattendo come prima di un’estinzione, non è così che si garantisce la bibliodiversità. Non è con l’occupazione sistematica degli spazi in libreria, come fanno Newton Compton, Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Longanesi, sia nelle loro librerie per chi le possiede che nelle altre, che si offre un servizio al lettore. Certo questi editori, continuiamo a chiamarli così, sono imprenditori e come tali giocano il proprio ruolo per rimanere leader di mercato. Ma servono delle regole, tutti i settori sono gestiti con regole più o meno efficaci che impediscano a grossi trust di viziare la domanda e presidiare l’offerta. La Legge Levi che pure è stato un passo avanti è un palliativo, è troppo permissiva, facilmente aggirabile, e in definitiva ha punito solo Amazon e con Amazon il lettore che effettivamente non può permettersi di acquistare libri che costano in media 15 €. Non è Amazon il problema. Sono i centri di potere editoriale; è l’assenza di una scuola in grado di preparare lettori accorti e appassionati e di sensibilizzare verso la cultura; è il gioco al ribasso dei piccoli editori che pur di sopravvivere abdicano non solo al loro ruolo di scouting ma anche di imprenditori: ho letto contratti in cui l’editore rifiuta in toto il rischio di impresa, non investe su quell’autore che sta pubblicando, semplicemente cerca di perderci il meno possibile. Non dovrebbe essere il primo a credere in quel testo? Pubblicare meno, pubblicare meglio sarebbe l’ideale. Ma non basta. Ci vuole senso di responsabilità. Ci vuole la capacità di individuare il talento, in giro ce n’è davvero poca, ma in compenso c’è tanta abilità a creare il caso editoriale sul niente.

Tutto questo, che ovviamente non è un’illuminazione inedita, lo si dice spesso, magari in modo diverso e anche io l’ho scritto molte volte in diversi contesti, ma non mi è mai sembrato più chiaro di così da quando mi è capitato di prendere in mano “La vera storia del pirata Long John Silver” di Björn Larsson edito da Iperborea nel 1998, con la traduzione di Katia De Marco, nell’edizione del 2000 che penso sia identica alle precedenti quanto agli apparati paratestuali. Ebbene – sorvolo sulla questione del prezzo del libro che nel 2000 era di 36000 e ora è di 18.50 – la quarta di copertina del libro è diversa dalle altre, non è quasi inutile come la maggior parte delle quarte ormai. Non contiene i pareri di gente che probabilmente il libro non l’ha mai letto, né spoilera tutta la trama del libro distribuendo aggettivi superlativi a casaccio. No, la quarta di copertina di quel romanzo è una nota dell’editore che spiega perché ha deciso di pubblicare quel libro, perché secondo lui quel libro è degno di essere letto, cosa lo ha spinto a considerarlo meritevole del tempo che ogni lettore impiegherà a leggerlo. «Ci sono libri che danno pura gioia, facendo vibrare dentro di noi tutte le corde del nostro amore per la lettura», inizia così quest’assunzione di responsabilità dell’editore di Iperborea, che infatti intitola il testo: “L’opinione dell’editore”. Ecco, come lettrice, io pretendo che ogni libro che viene pubblicato e chiede il mio tempo e i miei soldi sia dotato di questa assunzione di responsabilità, voglio che qualcuno ci metta la faccia e la firma per le cose che pubblica, che spieghi perché le pubblica, voglio che argomenti e giuri che quel dato libro è davvero importante, che l’ha fatto vibrare di amore per la lettura. E no, non basta che sopra un libro ci sia il logo di un dato editore, i motivi per cui i libri vengono pubblicati sono diversi e raramente dipendano dalla qualità del testo. A parte un paio di tipi che conosco e che sarebbero capaci di giustificare così anche la pubblicazione del “Mein Kampf”,  siamo certi che il signor Mondadori dichiarerebbe di amare alla follia i libri di Fabio Volo? E che, presso Rizzoli o Feltrinelli, Moccia tocchi le corde dell’amore per la lettura?

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