Di pancia

NB Questo post è stato originariamente pubblicato a marzo del 2010, un commento arrivato via FB in merito me l’ha ricordato e visto che le cose sono se possibile, anche peggio di quanto fossero l’anno scorso, ho deciso di riproporre il pezzo in homepage, tanto per promemoria. Anche solo per me stessa.

Diffido sempre di chi dice di sentire le cose “di pancia” e ancor di più di chi si bea della scrittura “di pancia”: che vuol dire? Tirare fuori quello che si ha dentro? Eviscerarsi come un pollo dal macellaio? Sputare parole e sentenze sulla carta, senza filtri, senza artifici, senza tecnica, senza retorica? No, non va bene scrivere di pancia, eppure sto per farlo perché altrimenti esplodo. Per una volta me lo concedo. E poi tanto, mica scrivo narrativa, io.

Le vittime dei miei strali stavolta sono le case editrici che dicono di volere storie forti, ritratti dell’Italia contemporanea, spaccati sociali, denuncia civile, pathos – chi più ne ha, più ne metta – e poi pubblicano romanzi inutili come quello di Alessandro D’avenia, o terribilmente noiosi e pretenziosi come l’ultimo di Francesco Pacifico (che ancora si ostina a non comprendere che delle crisi  mistiche dei suoi personaggi(?) e dei loro(?) dissidi religiosi, interiori ed esteriori che siano, non ce ne frega una beata mazza).

E vogliamo parlare di quei lettori professionisti che scrivono stitiche schede di valutazione,  tradendo la loro assoluta mancanza d’esperienza e conoscenza della letteratura? Lo so che sono malpagati e sfruttati per la gran parte, che in fondo a molti piacerebbe pubblicare libri propri, invece di leggere e criticare quegli degli altri, e poi si trovano a redigere schede che sono pagelline delle elementari, magari usando definizioni che non significano nulla come “picchi narrativi”, secondo le indicazioni di quegli editor in chief che soppesano i libri, perlopiù senza leggerli, come fruttivendoli al mercato – massimo rispetto per il fruttarolo, sia chiaro perché lui, sì che conosce quel che vende! – e li dividono in appetibili e non, in base a criteri del tutto mercantili.

Poi sia chiaro, ha ragione Roberto Calasso quando sostiene che si possono pubblicare solo tre tipi di libri: quelli belli che vendono; quelli brutti che vendono; e che entrambi questi tipi consentono di pubblicare il terzo genere di volumi, quelli belli che non vendono. Il mercato è sovrano e il lettore anche, ma bisogna pur conoscerlo questo lettore, dargli fiducia, contraddirlo persino, se necessario, e rischiare, proponendogli cose che possono sembrare magari, a volte, poco spendibili: non sia mai che quel lettore li stupisca e si orienti verso quel  libro scritto bene, con dei personaggi così vividi da sembrare tridimensionali e dei  dialoghi così brillanti da tenerti attaccato alla pagina, che però non denuncia un bel niente, né rappresenta una fetta di realtà dal di dentro, perché al suo autore non gliene importa niente di raccontare quel tipo di storia. Ma il lettore – pensano loro – se lo aspetta che prima o poi qualcuno si lanci in qualche invettiva contro questo mondo di fetenti, o tiri una molotov di punto in bianco, contro qualche palazzo del potere.

E come no! Io, quando leggo un libro, a ogni pagina aspetto ansiosa un terrorista, un operaio che sciopera, un precario che si suicida, una famiglia in pezzi, un bambino maltrattato, una donna violentata, un neocatecumenale che ha perso la propria fede perché tormentato dalla visione del seno della cognata (Pacifico docet ancora).

A tutta questa gente consiglio di leggere i libri veri, quelli belli, di andare a riprendere in mano gli esempi di grande letteratura e ricordarsi cosa vuole dire scrivere bene e intrattenere il lettore: scopriranno che non esiste “la letteratura”, ma tanti tipi diversi di scritture e storie e modi di raccontare, tutti ugualmente grandi.

La letteratura è fatta degli intrighi di Stendhal, dell’autoreferenzialità di Proust, dell’essenzialità di Hemingway, del genio proteiforme di Borges, dei deserti verbali – costellati di rare oasi – di Beckett, del flusso di coscienza di Joyce. C’è la letteratura di idee, quella di trame, d’atmosfera, di denuncia. E c’è la letteratura fatta di leggerezza, di umorismo, d’ironia e a volte anche fatta di niente, ma di un niente così incantevole che sembra essere forgiato con la stessa materia dei sogni.

In una lettera al suo editore, credo, Francis Scott Fitzgerald disse: «il romanzo che sto scrivendo è un’opera à la Flaubert: nessuna idea, soltanto personaggi che si evolvono, separatamente o in gruppo, attraverso stati d’animo che mi auguro autentici».

Nessuna idea.

«Il personaggio è l’azione», è l’ultima delle annotazioni degli appunti preparatori a Gli ultimi fuochi. E coerentemente a questa che sembra la sintesi della sua poetica, i personaggi di Fitzgerald sono vivi, non sono descritti ma si raccontano e vengono raccontati con dialoghi fulminanti e metafore meravigliose, e se nessuno si ricorda dei due omicidi che vengono commessi in Tenera è la notte, chi può dimenticare la lingua lussureggiante in cui è scritto? E la caratterizzazione dei personaggi (Dick con la sua voce che «corteggiava il mondo»; Rosemary che per un momento «visse nel luminoso mondo azzurro degli occhi di lui»)?. E de Il lungo Addio? Ci ricordiamo la dinamica delle indagini di Philip Marlowe? O invece ci risuonano prepotentemente nella mente, i tacchi delle scarpe di Terry Lennox che si allontana, portandosi dentro la colpa e il dolore di un’amicizia tradita?

Non sarò certo io a sminuire l’importanza di una trama, della storia, dell’intreccio, ma in nessun modo quella trama, quella storia e quell’intreccio possono prevaricare la bellezza della parola, della scrittura, la capacità di far sì che il personaggio diventi azione.

Fitzgerald, ancora lui, lo so ma ognuno ha le sue fissazioni, nel 1920 per la rivista “Smart Set “ha scritto un racconto che s’intitolava “Porcelain and Pink”, poi inserito nella fortunata raccolta Tales of the Jazz age e tradotto in italiano da Giorgio Monicelli per Mondadori, come “La vasca azzurra”.

Il racconto, che in realtà Fitzgerald immagina come un testo teatrale un po’ anomalo, con il narratore che detta le regole dell’ambientazione direttamente al lettore, non racconta nulla in realtà, è un’istantanea, un’unica scena in cui non succede quasi niente: una ragazza è nella vasca e un ragazzo la guarda da fuori, ma senza poterla vedere veramente e si parlano in un’atmosfera onirica che sembra però più reale del vero. Mero esercizio di stile, un arabesco barocco, ma perfetto, tutto giocato sullo scambio di battute spesso svagate tra i due personaggi e dominata dall’enorme abilità dell’autore di usare la parola scritta per restituire sensazioni, immagini, profumi, suoni, colori. Quasi nessun cenno a eventi precedenti questa scena, nessuna proiezione sugli sviluppi successivi, eppure una volta terminata la lettura, si ha la netta sensazione di aver assistito a uno spettacolo sublime, che lascia soddisfatti e con gli occhi e la mente pieni di bellezza.

Potrei continuare all’infinito, ma sono distratto da uno dei due oggetti che si trovano nella stanza: una vasca di porcellana azzurra. Ha un suo carattere, questa vasca da bagno. Non è uno di quei moderni affari aerodinamici, ma è piccola e profonda e sembra che stia per spiccare un balzo; ma scoraggiata dalla brevità delle gambe, si è rassegnata all’ambiente e alla mano di vernice azzurro cielo che la ricopre. Ma si rifiuta caparbiamente di consentire ai suoi visitatori d’allungare le gambe: e questo ci porta direttamente al secondo oggetto presente nella stanza:

E’ una ragazza – evidentemente un accessorio della vasca da bagno – di cui appare soltanto la testa e la gola (le belle ragazze non hanno collo, ma gola).

Quale ragazza si sentirebbe sminuita dall’essere descritta con queste parole? Persino di essere definita un accessorio? Io da quando ho letto questo racconto non ho più avuto il torcicollo, ma solo dei gran mal di gola.

E quella vasca azzurra non è più viva di moltissimi personaggi di altri racconti o romanzi?

Quindi dico a te, giovane lettore/lettrice di casa editrice di belle speranze e poca apertura mentale, non ipotecare il desiderio del lettore, non battere strade conosciute e semplici, non assecondare esclusivamente gli  istinti da piazzisti di libri dei tuoi editori, ma ricerca la bellezza, riconosci il talento al di là di preconcetti e schemi precostituiti, lascia perdere la denuncia a ogni costo e la ricerca di una storia forte a discapito della pura bellezza di un libro: quanti ne hai fatti pubblicare così, fregandotene altamente del loro valore letterario? Rischia, mettiti in gioco, dimentica i diktat di quello che ritieni sia il gusto imperante e regalami solo un bel libro.

Share

16 Comments

  1. Avevo già intuito che era bene non farti arrabbiare, e ringrazio il cielo per non essere uno di questi editori o lettori professionisti. Li ringrazio però perchè ti hanno ispirato un testo così bello.

  2. Che bell’ articolo, Seia! 🙂
    Qualche giorno fa ho mandato il mio cv alla Mondadori, e immaginandomi a un colloquio mi sono resa conto che non c’è alcuna uscita recente della casa editrice ad avermi entusiasmata davvero, e se mi chiedessero i miei autori preferiti dovrei fare riferimento a libri di altre
    Tra l’ altro mi è capitato di parlare con una persona che ha espresso la tua stessa noia verso le tette della cognata del personaggio di Pacifico.
    Uguale uguale…

  3. vic: allora sei preparato e avvisato 😀

    sempreinblico:direi che per il colloquio un libro a caso Mondadori puoi pure inventartelo 🙂
    Ci credo che quel tuo/a amico/a abbia espresso insofferenza verso le tette di Ada: è un espdiente narrativo dei peggiori mai letti!
    in bocca al lupo per il colloquio eh 😀

  4. Il romanzo è interessato al movimento psicologico dei personaggi, la trama, che tanti invocano, sta all’interno dello stile, non è la TRAMA che fa il romanzo. Se si apre il giornale le storie più incredibili ci zavorrano da mattina a sera l’immaginario. Quindi un romanziere non è colui
    che racconta una storia (quello è un raccontatore, un affabulatore, ecc..)ma è colui che racconta l’uomo, i suoi pensieri, il suo agire all’interno di una storia. Penso a quel gran romanzo che è L’Immortalità di Kundera. Kundera che avrà voluto dire con una serie di rimandi da Goethe alla tv, da lui stesso come personaggio, alla cronaca francese, a digressioni sui sentimenti o sulla nostalgia ? Ha voluto dire (come egli specifica nei saggi)
    quello che solo il romanzo leggendolo può dire, l’agire dell’uomo si capisce all’interno del romanzo e non se ne può estrarre una morale né un trattato. Il romanzo che resterà è questo per forza di cose, le storie e l’interesse per intreccio in sé avevano già esaurito le loro possibilità ai tempi del bel saggio sul romanzo di Ortega Y Gasset. Anche il nostro bravissimo Cesare De Marchi nei sul suo saggio sul romanzo lo ribadisce. A proposito La furia del mondo di De Marchi è un grande romanzo.
    Ciao e buona giornata.

  5. sempreinbilico: allora per ora mi limito a incrociare le dita 😀

    vic: non fare lo sbruffone che non sai a cosa andresti incontro ;-D

    Domenico: sono d’accordo con te, anche se a volte ci sono libri che sono esemplari esercizi di stile, ma che non vanno al di là di una prosa poetica e quindi non possono definirsi romanzi. Certo De Marchi nella Furia del mondo è un grande scrittore di stile e poi di trama.
    E pensandoci bene le trame e gli espedienti narrativi li hanno già esauriti tutti i tragediografi greci e poi Shakespeare.
    Buona serata 😀

  6. E’ proprio un bell’articolo e sono d’accordo con te: la maggior parte delle persone è abituata a pensare ed esprimersi per dogmi e frasi fatte. Il danno c’è quando queste sono le persone che devono decidere cosa va pubblicato oppure no. Triste a dirsi, ma le case editrici sono piene di gente incompetente che si crede di essere chissà chi.

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.