Speriamo che tenga*

Pensavo a Wislawa Szymborska prima di dare inizio alle danze lunedì scorso al “Colosseo Nuovo Teatro“: presentavo Storie dalla fabbrica, una evento dedicato al confronto tra due libri diversi tra loro, scritti a distanza di trent’anni, Tuta blu di Tommaso Di Ciaula e Cera per le sirene di Alberto Ragni, che però parlano entrambi di fabbriche e operai.

L’idea mi è venuta qualche mese fa perché i due libri sono legati non solo da aspetti relativi ai rispettivi protagonisti, gli operai di fabbriche in difficoltà, ciascuno con la propria vita e i propri problemi, ma anche perché Alberto ha preso il titolo del suo romanzo e la poesia che ha messo in epigrafe al volume proprio dal libro di Di Ciaula, e io poi ho letto Tuta blu proprio perché è stato Alberto a regalarmelo anni fa.

A parte questo i due romanzi sono completamente differenti. Di Ciaula racconta un mondo che sta cambiando, in peggio, il passaggio dalla vita contadina a quella industriale; è quasi un monologo il suo, un’invettiva in forma di diario contro l’ingiustizia di una vita sacrificata alla fabbrica, al lavoro senza tutele, all’alienazione di giorni sempre uguali. C’è l’amarezza, l’amarcord e la poesia nelle sue parole, ma soprattutto la rabbia di un uomo che deve lottare per non perdere la propria dignità in nome del progresso, della produttività, del profitto.

Alberto scrive invece di un giovane operaio che sta per perdere il lavoro, ma che ha una vita al di fuori delle pareti della fabbrica, una sorella con cui vive un curioso rapporto fatto di malizia e ironia, una quasi ex-fidanzata dai seni grandi quasi quanto la sua indecisione circa il loro rapporto, un vicino di casa paranoico e strambi colleghi di lavoro con cui cucina la trippa durante il turno di lavoro e gioca a carte nelle pause. E anche gli aspetti più seri legati alla probabile dismissione dello zuccherificio in cui lavora, sono raccontati con un’ironia amara ma leggera, che fa sorridere e commuovere allo stesso tempo. Penso per esempio agli operai che di notte rimontano ciò che di giorno viene smontato per chiudere definitivamente lo stabilimento, come estremo tentativo di ribellione, inutile ma liberatorio e soprattutto “legale”, loro costruiscono, non sono mica dei vandali in fondo.

Di eventi culturali – tra presentazioni, convegni, poetry-slam, conferenze – ne ho organizzati parecchi in passato, soprattutto con “Origine” non facevamo che promuovere iniziative e incontri a diverso livello, ma sono sempre stata dietro le quinte, inviavo e scrivevo comunicati, invitato persone e personaggi (solitamente c’è una gran differenza tra le une e gli altri), controllavo che tutto procedesse per il meglio e poi mi sedevo tra il pubblico a godermi lo spettacolo, limitandomi a dare qualche indicazione, se necessario.

Lunedì invece ho dovuto sedermi sul palco davanti al pubblico dopo aver organizzato tutto e mentre cercavo di contenere il panico, mi sono tornate alla mente queste parole della scrittrice polacca in “Serata d’autore”, contenuto nella raccolta Vista con granello di sabbia. Poesie (1957 – 1993):

“Ci sono dodici persone ad ascoltare, è tempo ormai di cominciare. Metà è venuta perché piove, gli altri sono parenti. O Musa. […] In prima fila un vecchietto dolcemente sogna che la moglie buonanima, rediviva, gli sta per cuocere la crostata di prugne. Con calore, ma non troppo, ché il dolce non bruci, cominciamo a leggere. O Musa…”

In realtà nella platea del bel Teatro Nuovo Colosseo c’erano ben più di dodici persone, qualche amico, nessun parente – se si esclude Davide che ha sostituito Tommaso Di Ciaula assente giustificato per una leggera indisposizione – e diversi sconosciuti che hanno mostrato di gradire la serata.

Come mi succedeva durante gli esami all’università la cosa peggiore è stato l’attesa che ha preceduto l’evento: è stato come prima dell’appello del professore, mentre una volta che hai deciso di varcare la soglia dell’aula e ti siedi davanti all’esaminatore ti dimentichi di tutto e pensi solo a portare a casa il miglior risultato possibile. E credo che ci siamo riusciti.

Davide è istrionico, il palco è il suo territorio naturale, il pubblico lo esalta, leggere brani suoi o di altri, con il piglio del grande attore o del poeta che vive ciò che legge, è uno dei suoi talenti.

Alberto è stato simpatico e brillante, è stato se stesso in pratica, ma senza quella leggera ritrosia o timidezza che mostra a volte nella vita: si è preso la parola quando gli pareva (e riuscire a zittire Davide senza litigarci non è impresa da tutti) e ha giocato di sponda o assestato un bel colpo ad effetto a seconda dei momenti e sempre quando era giusto farlo. Ha scelto di leggere brevi brani del suo libro, ma li ha selezionati con cura, c’erano anche alcuni dei miei preferiti e quasi non ci eravamo messi d’accordo. E a un certo punto mentre cercavo di dare qualche informazione generale sulla letteratura operaia e quella industriale e d’inquadrare storicamente e criticamente il fenomeno – in fondo sono o non sono un critico letterario in progress? – a tradimento quasi, ha calato il suo asso di bastoni citando una canzone di Umberto Tozzi del ’77, “Gesù che prendi il tram”, che potrebbe essere la vera origine dell’espressione “tuta blu” per indicare convenzionalmente l’’operaio, visto che è uscita un anno prima che il libro di Di Ciaula fosse pubblicato.

Ora a me chi ha inventato per primo l’espressione “tuta blu” non è che importi molto, il romanzo di Di ciaula resta importante per molti altri aspetti, ma che Tozzi abbia scritto una canzone impegnata che recita:

“Gesù che entri nei bar / Insieme col mattino Cornetto o cappuccino / tu lo sai Che troppi figli hai / Gesù che in fabbrica vai / tuta blu Compagno Gesù / C’è un uomo in meno una vedova in più”

mi ha scioccato. Meno male che ho imparato da Pippo Baudo (ma soprattutto da Milva) che the show must go on e sono andata avanti nonostante il trauma.

Della serata mi resterà la pioggia che ha creato non pochi problemi; il rosso acceso delle poltroncine del teatro; i fari che illuminavano il palco accecandomi; le mie amiche in prima fila a sostenermi; una bellissima cartolina in bianco e nero del mercato dei libri a Barcellona nel 1915; Alberto che prende alla lettera le richieste di “firmare la copia del tuo libro” fatta da chi le ha comprate e le sigla una per una con il suo nome e cognome senza aggiungere una dedica, un pensiero, una frase da navigato scrittore; la spilla da balia strategica che teneva insieme la scollatura troppo audace della mia camicetta e che a un certo punto ha deciso di abbandonarmi, rischiando di farmi ripetere l’esperienza di Patsy Kensit a SanRemo, solo che mutatis mutandis, c’è da dire che la Kensit porta una prima scarsa, qui invece parliamo di ben altro, ma il pericolo è stato miracolosamente scongiurato.

A parte i ricordi e i ringraziamenti a chi ha permesso di realizzare la serata, a chi è intervenuto, a chi non c’era ma avrebbe voluto esserci (e un pensiero a chi mi ha creato solo problemi), quello che ancora porto con me, è una brutta bronchite dovuta all’umidità della serata e al freddo preso durante la cena del dopo evento, che in pratica mi ha privato di qualsiasi capacità respiratoria e mi ha segato via le corde vocali.

Una serata che non dimenticherò mai, soprattutto se non dovessi riacquistare mai più la mia bellissima voce!

Ah, dimenticavo, in prima fila non c’era nessun vecchietto che sognava dolcemente la moglie e una crostata di prugne. Peccato. 

 

 

* è stato il leitmotiv di tutta la mia giornata: “speriamo che tenga” il tempo, la spilletta, il tacco 10 degli stivali, il palco, il faretto sopra la mia testa, il tendone all’esterno del ristorante sotto la pioggia, e soprattutto il mio cuore che a volte perdeva i battiti, ma questi sono fatti più miei, dei miei raccontati fin qui. (Citazione di Speriamo che tenga di Moni Ovadia, naturalmente).

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7 Comments

  1. ah la firma non bastava? prendo sempre tutto troppo alla lettera 🙂
    quanto a tozzi, lo dico sempre che andrebbe rivalutato. anzi andrebbe rivalutata la coppia tozzi-bigazzi.
    comunque gran bella serata. facciamone un’altra va.

  2. alb: ora che si sa sta tua cosa, sulla pagina del romanzo prima di fartela firmare ci metteranno una cambiale 🙂
    Facciamola un’altra serata! Sempre che io sopravviva a questa però! 😀
    E comunque io sono per la rivalutazione del terzo elemento della non coppia Tozzi-Bigazzi, come sai!

  3. Capito per caso (via google dopo aver scritto “Alice Munro”).
    Siccome, in questo bel blog l’interesse per i libri è prevalente,
    volevo fare il nome di un grande scrittore che con i suoi 81 anni ancora scrive racconti di mirabolante bellezza: William Trevor. In Italia è pubblicato da guanda. La raccolta Uomini d’Irlanda o il romanzo breve (L’amore’un’estate), sono gli ultimi due libri pubblicati nel 2009. Entrambi bellissimi. Uomini d’Irlanda ha al suo interno forse i racconti più belli di Trevor, tutti intorno alle 15-20 pagine, tutti perfetti (ne cito tre: La bravata, Un pomeriggio, una relazione perfetta). Buona serata.

    Domenico Fina – anni 40
    Avezzano (AQ)

  4. Leggendo nel tuo blog, dici di prediligere scrittori non strettamente dei nostri giorni e che i contemporanei ti soddisfano poco. Io non la penso tanto diversamente; ci sono comunque scrittori notevoli e viventi come il nostro Magris e William Trevor (ci aggiungo Alice Munro e Kundera). Tra gli italiani c’è Cesare De Marchi che ha scritto una grande romanzo nel 2006 (La furia del mondo) e anche Diego Marani che ha pubblicato un romanzo delizioso, dal sapore sveviano (L’amico delle donne, bompiani 2008). C’è Serena Vitale, ci sono le poesie della Szymborska, quelle di Charles Simic. Il presente è meno “desolante” delle nostre intransigenze, forse, (me lo ripeto da me). Uno scrittore notevole (passato tra i defunti, nel 2000) è Goran Tunstrom pubblicato da Iperborea, il suo ultimo romanzo “Uomini famosi che sono stati a Sunne” è originalmente spassoso e profondo. Scusami per l’intromissione, quasi da incursore. Buona serata.

    Domenico Fina

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