La vanità del male e del bene

Ammàtula in siciliano significa inutilmente, vanamente (anche se per estensione a Messina, dove sono nata, o almeno nella mia famiglia, l’avverbio dialettale viene usato anche per indicare qualcuno che parla o fa qualcosa a vanvera, e di continuo). In ogni caso ammatula traduce la vanità delle cose, dette o fatte.

Il 19 settembre uscirà un romanzo che racconta l’incessante e inane tentativo dei suoi personaggi di riscattarsi e di ambire alla felicità, e si intitola proprio “Ammatula” e l’ha scritto, ovviamente, uno scrittore  e giornalista siciliano, Gianni Bonina.

Il libro racconta le vicende di due famiglie e delle persone che girano loro intorno a diverso titolo, ripercorrendo cinquant’anni di storia della Sicilia, che è a suo modo protagonista del volume, e di tutta la penisola: dalle contestazioni studentesche a Lotta Continua, dalle stragi di mafia al pentitismo, fino ai giorni nostri in cui la mafia sembra sparita e per questo è anche più pericolosa.

E viene da osservare in proposito che nel corso degli anni sono quasi spariti anche i romanzi che parlano di mafia: da quando i maxi processi e le rivelazioni dei pentiti hanno consentito di scoperchiare il vaso di Pandora che ne conteneva segreti ed efferatezze, così come i meccanismi e le dinamiche che la governano, sembra che – mentre prima la letteratura serviva a colmare le grandi lacune su Cose Nostra, e grandi penne si cimentavano nella rappresentazione di qualcosa che solo i siciliani, per quanto estranei alla Cupola, potevano percepire e respirare – ora che molto si sa, la materia è in mano a giornalisti e saggisti perlopiù e soprattutto, forse, avendo la consapevolezza che Mafia e Stato spesso siano stati cugini molto prossimi, o non c’è più grande voglia di parlarne, o non si hanno gli strumenti per farlo, tanto che nelle sporadiche eccezioni della scrittura cinematografica o della fiction televisiva, ci si abbandona inesorabilmente allo stereotipo e alla macchietta.

Uno dei pochissimi che ha continuato a scrivere di mafia, non solo sui giornali ma tramite la narrativa, è proprio Bonina: che a tal proposito oltre ad altri due romanzi, ha dato alle stampe mesi fa anche una raccolta di racconti sul tema, Fatti di mafia per le Edizioni Theoria. E ora con la mafia torna a farci i conti in “Ammatula”, dove coglie un aspetto molto peculiare del fenomeno dell’affiliazione mafiosa, che spesso si sottovaluta pur non volendo creare alibi per nessuno: l’ineluttabilità del diventare mafioso se appartenente a genìa di mafiosi, e non solo per condizionamento ambientale e culturale ma per una sorta di sentimento di appartenenza, come i designati ad ascendere a un trono per nascita che difficilmente abdicano. I protagonisti principali del romanzo trascorrono la loro vita tra il rifiuto, l’accettazione opportunistica e la fascinazione, e tutti in momenti diversi attraversano queste tre fasi. Inutilmente fanno resistenza, inutilmente prendono decisioni o posizioni, ci pensano la vita e la Mafia, sorta di deus ex machina, a rimettere tutto in gioco. Del resto anche senza “scomodare” la mafia, Bonina ci dice che in definitiva siamo tutti moderni Sisifo che spingono vanamente la propria pietra verso la vetta di una montagna – e una volta in cima quella pietra ci sfugge e rotola giù.

“Ammatula” è una saga familiare e sociale, i personaggi sono tutti legati tra di loro, e pure i tantissimi gregari sono rilevanti nell’intreccio, dopo un po’ li riconosciamo evocando volti e abitudini come se fossero persone a noi note, vere, e così la narrazione scorre verso la fine della storia quasi senza che ce ne accorgiamo, ma non per questo meno inesorabilmente. Storia che, come a chiudere un cerchio, termina quasi dove è iniziata: con un arcobaleno. All’inizio della vicenda infatti, il mafioso Giuseppe Scaturro illustra al parlamentare Carmine Andaloro, rivale e sodale di sempre, la vacuità di ogni azione e di ogni tentativo di sottrarsi all’inevitabile, servendosi di una metafora non priva di poesia:
«Nella mia e nella sua vita» disse infine Scaturro, seduto all’altro lato del tavolo sgombro e lungo di una stanza disadorna, «ci sono stati troppi arcobaleni di marzo, che sono una maledizione».
«Arcobaleni di marzo?» ripeté Andaloro, non capendo e mantenendo un atteggiamento severo di distacco. «L ’arcobaleno porta il sole, che ammatula spunta perché poi piove di nuovo. E siccome a marzo, che è il mese più ballerino, continuamente smette e ricomincia a piovere, ecco che gli arcobaleni sono tanti e tutti tragediatori, perché sbagliano sempre: come noi due e altri che conosciamo».

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