Un romanzo hardcore dal sapore western, tra Puglia e Val Camonica

Sto per parlarvi del romanzo “Come belve feroci” di Giuse Alemanno edito da Las Vegas Edizioni, un romanzo che mi ha fatto un po’ penare all’inzio, ma più per mie idiosincrasie che per reali colpe del testo.

A me non piace il sesso esplicito nelle storie e nel romanzo il sesso non solo è esplicito ma è usato anche come punizione, affermazione di potere, annientamento dell’altro, sopraffazione. E non mi piace nemmeno la violenza efferata, descritta nel minimo dettaglio, ripercorsa spasmo dopo spasmo, squarcio dopo squarcio, e di certo il libro non lesina sui particolari più sanguinolenti. Inoltre sin da subito c’è un’atmosfera in bilico tra pulp e western che mi ha stranito. Ma sono andata avanti nella lettura – ho promesso all’autore che avrei finito il libro, e cerco di esser sempre fedele alla parola data – perché di Giuse Alemanno mi piace la scrittura: e immaginavo che a un certo punto tutta la brutalità che mi aveva sopraffatto nelle prime pagine avrebbe imboccato la strada dell’umorismo sagace, condito di filosofia spicciola ma non per questo meno vero ed efficace, che è un po’ la cifra dell’autore per come lo ho conosciuto fino ad oggi, attraverso i suoi libri precedenti.

Mi ha colpito inoltre la frase in quarta di copertina: “Un’anima può corrompersi solo se possiede i presupposti per marcire”, che è una buona presentazione per questa storia e ne è anche un po’ il succo: visto che parliamo del racconto di una vendetta atroce, in apparenza spropositata, ma che in realtà rappresenta la replica a delitti similmente atroci – sullo sfondo di un sistema, quello della criminalità organizzata e in particolare della n’drangheta – che si fonda, esso stesso, su atrocità e mostruosità.

In pratica la famiglia Sarmenta, non certo costituita da innocui seminaristi, scappa in Val Camonica dopo aver ucciso per vendetta un capo famiglia di Ossido Messapica e i suo scagnozzi: costoro, a loro volta, avevano massacrato alcuni membri dei Sarmenta. In questa fuga essi portano con sé il  nipote Massimo, detto Mattanza perché sin da piccolo manifestava una violenza cieca e irrefrenabile, e il figlio Santo, che sembra provenire da un’altra famiglia, anzi da un altro pianeta, per quanto è studioso e gentile.

La scelta della Val Camonica come via di fuga non è casuale. Lì Vittorio, il capofamiglia, conosce qualcuno: un certo Giovanni Argento, che gli deve un favore e gli si affida. Si capisce subito che questo è un grave errore e la storia evolve in un escalation di violenza in cui, alla fine, anche Santo si sente chiamato in causa, perché – come recita la quarta del libro – i presupposti per marcire erano già in lui, non poteva sfuggire al suo destino, al destino di chi respira malavita tutto il giorno, tutti i giorni.

Eppure la bravura di Alemanno – a parte la mano felice nei dialoghi, l’umorismo che alleggerisce la vicenda durissima, la capacità di creare intrecci coerenti e intriganti – sta nel riuscire a portare il lettore dalla parte dei due ragazzi e prima forse anche di Vittorio, nonostante siano mostri come coloro contro cui combattono: ma, nel cuore del racconto, la loro vendetta diventa causa anche del lettore, e la tensione è alta perché si tifa per loro.

In verità, nelle note finali, lo scrittore si prende un po’ gioco del lettore mettendolo in guardia dal parteggiare per chi cerca vendetta, perché rischia di finire a dividere con loro l’inferno che li abita.

(Da queste note s’intuisce anche che ci sarà una seconda parte della storia e stavolta la leggerò senza tentennamenti).

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